Tecniche di stampa
Note storiche
Il più antico metodo di stampa è la xilografia, che si avvaleva di una matrice di legno duro incisa a rilievo, ottenuta con l’asportazione mediante bulino o sgorbie (scalpelli particolari), delle parti non stampanti. Le parti in rilievo non asportate, venivano inchiostrate in modo che, pressate su un supporto (carta o tessuto), riportassero l’immagine o la scritta al rovescio.
Con l’intaglio di diverse matrice della medesima dimensione (una per ogni colore) e con la stampa delle stesse a registro su un unico foglio, si otteneva la stampa a colori.
Sembra che i Cinesi praticassero questo sistema già nel VIII secolo a.C., e che i Romani usassero rudimentali punzoni in legno per contrassegnare le stoffe.
– 1040 c. a. il cinese Pi-Cheng realizza un primo esempio di libro a stampa xilografica.
– 1450 – Gutenberg a Magonza inventa la stampa a caratteri mobili che darà inizio allo sviluppo della stampa “industriale”.
– 1452 – Maso Finiguerra, orafo fiorentino, inizia a stampare usando la tecnica dell’incisione manuale su lastre di rame.
Prima della fine del XVIII secolo i metodi di stampa si fondavano su principi meccanici; la matrice poteva essere a rilievo (tipografia) o a incavo (calcografia), ma il principio era sempre quello del trasferimento di un segno o di una lettera su di un supporto, mediante un’operazione meccanica.
All’inizio del XVI secolo la Xilografia diventa una forma d’arte estremamente raffinata. L’incisione xilografica viene eseguita su una tavola di legno, incisa con bulini e sgorbiette, lasciando solamente quelle parti che verranno poi inchiostrate. La xilografia utilizza quindi il segno in rilievo, cioè in superficie, che risulta dallo scavo dei bianchi.
– 1796 – Nel 1796 il tedesco Aloys Senefelder a Monaco sperimenta un metodo che permette di stampare con una matrice piana (planografico), senza cioè parti in incavo o a rilievo basato sulla repulsione tra sostanze grasse e l’acqua. Il sistema, prima chiamato “stampa chimica su pietra” e poi Litografia (dal greco lùthos=pietra e grafeìn=scrivere) sfrutta uno speciale tipo di pietra ricavata dalle cave di Solenhofen, vicino a Monaco di Baviera e usa superfici lipofile (grafismi) e superfici idrofile (contrografismi). Tale pietra, opportunamente levigata e disegnata con una matita grassa, ha la proprietà di trattenere nelle parti non disegnate un sottile velo di acqua. Passato l’inchiostro, esso viene respinto dalle parti inumidite e trattenuto nelle parti disegnate, grasse. (Al torchio si faceva asciugare l’acqua e il foglio di carta riceveva solo l’inchiostro che si era depositato sulle parti disegnate. Naturalmente bisognava scrivere al rovescio).
La semplicità del procedimento e la facile reperibilità della materia prima, favorisce la rapida sostituzione della Xilografia e dell’incisione nelle illustrazioni dei giornali e dei libri. La Litografia riscosse immediatamente grande successo. Sin dai primi anni del 1800, tutti i grandi artisti si cimentarono con questa nuova tecnica. La xilografia comunque continuerà ad essere adoperata come mezzo espressivo. Fu una tecnica amata tra gli espressionisti. Kirchner, del gruppo Die Bruche, ad es. realizzò opere con tecnica xilografica intorno al 1910.
Agli inizi del 1800, Goffredo Eghelman realizza la cromolitografia, la tecnica di stampa litografica a più colori per selezione e per sovrapposizione (praticamente la litografia a colori); poi il tipografo francese Lemercier tenta la stampa con l’inchiostro grasso di una immagine ottenuta sul bitume con l’ausilio della luce. Si può considerare il primo esperimento di fotoincisione.
– 1833 – Brisset perfeziona il torchio a carrello scorrevole di Senefelder che diventerà il classico torchio a stella.
In campo industriale, si diffonde la litografia quando la pietra venne sostituita dalla lastra di zinco, che rese possibile la costruzione, verso il 1840, delle prime macchine piano-cilindriche.
– 1852 – Fox Talbot, utilizzando gli studi del francese Niceforo Niepce e dello scozzese Ponton sui colloidi animali e vegetali che uniti ai bicromati di potassio d’ammonio o di sodio diventano sensibili alla luce, incomincia a riprodurre immagini incise chimicamente sul metallo retinandole prima con una garza e successivamente con una polvere di resina.
– 1864 – Wilson Swan perfezionò il trasporto dell’immagine dalla carta al colloide bicromatato, sulla lastra di metallo.
– 1884 – Ottmar Mergenthaler presenta la realizzazione di una macchina, chiamata poi Linotype, che consentiva di comporre caratteri tipografici fusi su un’unica riga di piombo. Nel 1800, le tipografie si erano trovate infatti nella necessità di accelerare notevolmente la composizione, così avevano avuto inizio studi di prototipi di macchinari, La macchina era costituita da tre sezioni:- La prima, il “magazzino”, conteneva le matrici, chiamate da una tastiera e allineate su un compositoio; La seconda era costituita da una caldaia, contenente piombo fuso, che veniva pressato sulle matrici assumendone così l’impronta; La terza era composta da meccanismi che riprendevano le matrici per restituirle al magazzino. La correzione di eventuali errori, si effettuava sostituendo la riga intera di piombo. Le prestazioni della macchina di Mergenthaler erano notevoli: 6.000/8.000 lettere chiare, resistenti, nuove, contro le 1.000 che un buon compositore riusciva a comporre a mano.
– 1887 – L’avvocato Tolbert Lanston crea il prototipo della Monotype che, sempre meccanicamente, fondeva, a differenza della Linotype, le lettere singole, facilitando così le correzioni.
Le Linotype furono usate soprattutto nei giornali e nell’editoria commerciale, mentre le Monotype furono adottate per composizioni più complesse. Entrambe le macchine si possono considerare le antenate della moderna fotocomposizione. Il monotipo (dal greco “unica impronta”) è un unico esemplare a stampa; la matrice non presenta né tagli né morsure, il disegno viene tracciato dall’artista direttamente sulla superficie con pennelli e altri strumenti. Come in ogni stampa, la composizione risulta rovesciata rispetto al foglio. Senza altre aggiunte di inchiostro, se ne traggono, qualche volta, una seconda e una terza prova che diventano sempre più sbiadite e quindi vengono ritoccate a mano. Il supporto su cui viene eseguita l’opera può essere di metallo, di vetro, di legno, di plexiglas o di altro materiale duro e liscio, oppure anche leggermente poroso.
– 1895 – Klietsch, Meiesnbach e Ives perfezionano ulteriormente la tecnica del trasporto dell’immagine dalla carta al supporto.
Agli inizi del XX secolo venne sperimentato un nuovo tipo di stampa derivato dalla litografia, ma, l’immagine da stampa, invece di trasferirla dalla lastra alla carta, veniva trasferita dalla lastra ad un cilindro di gomma in pressione e da questo alla carta. Nacque la stampa indiretta chiamata offset (da to offset che vuol dire contrapporre, fronteggiare). E’ un metodo di stampa piana, la cui invenzione è posteriore a quella dell’incisione. La pietra utilizzata è un calcare molto compatto e di grana grassa, chiamata appunto “litografica”, che protegge la pietra quando la si tratta con una soluzione di gomma arabica e acido nitrico molto diluito: le zone rimaste libere e quindi raggiunte dall’acido sono rese repellenti ai grassi e ricettive all’acqua. La pietra viene quindi bagnata ed inchiostrata a rullo: l’inchiostro si fissa sulla superficie esatta del disegno, trattenuto dalla matita grassa, mentre le zone bagnate rifiutano l’inchiostrazione. Ci vuole una pietra diversa per ogni colore. Prima di una nuova utilizzazione, la superficie della pietra viene sabbiata (granitura).
– 1904 – Iva Rubel nello stato di New Jersey, avendo avuto l’occasione di constatare che l’inchiostro riportato sulla carta attraverso un cilindro rivestito di materiale gommoso produceva una stampa di qualità migliore. costruisce con l’apporto tecnico di Gaspare Hermann la prima macchina offset a tre cilindri.
– 1910 – A Francoforte la nuova tecnica rotocalcografica inizia ad essere produttiva.
– 1938 – Chester F. Carlson, negli Stati Uniti d’America, inventa la riproduzione Xerografica che sarà successivamente messa a punto dalla compagnia Haloid.
La tecnica della Calcografia (dal greco calcos: rame – grafo: scrivo, incido) è la tecnica di incisione che prende il nome dalle lastre di rame usate dai primi incisori, (oggi sono diffuse anche lastre in zinco, benché il materiale migliore, proprio per la sua maggiore durezza, sia ancora il rame). L’incisione calcografica si divide, a seconda della tecnica usata per incidere la lastra, in: – Procedimento Diretto in cui la matrice viene incisa direttamente dall’artista con strumenti idonei a scalfire il metallo, senza mediazioni chimiche. Sono tecniche dirette il bulino, la puntasecca, la maniera nera, il punzone e il procedimento indiretto in cui la matrice viene incisa, dopo opportune preparazioni, dall’azione “mordente” dell’acido in cui viene immersa, quindi non direttamente dalla mano dell’artista. Sono tecniche indirette principalmente l’acquaforte, l’acquatinta, la vernice molle.
PROCEDIMENTO DIRETTO
BULINO – L’incisione a bulino sviluppatasi soprattutto in Italia e in Germania è attuata tramite uno strumento costituito da una sottile asta di metallo a sezione quadrangolare o triangolare, tagliata a formare una punta affilatissima. Il bulino viene spinto sulla lastra così da sollevare dei “trucioli” di metallo, detti barbe, che vengono poi asportati con un raschietto. Il segno del bulino è facilmente riconoscibile per la particolare nitidezza in resa di stampa e perché, una diversa pressione esercitata dallo strumento in sede di incisione, permette di ottenere solchi di profondità diversa.
PUNTASECCA – Il nome della tecnica si confonde con quello dell’utensile. L’utensile è una punta di metallo affilato che viene usata dall’incisore come se fosse una matita. I solchi che si ottengono non sono troppo profondi e mostrano ai lati un leggero rialzo del metallo, dovuto al suo spostamento determinato dalla punta. La particolarità è che la punta non taglia il metallo asportandolo ma si limita a spostarlo con la forza della pressione esercitata, le cosiddette “barbe” che si sollevano durante la fase di incisione, al contrario di quanto avviene nella tecnica classica a bulino, vanno conservate: esse infatti al momento dell’inchiostrazione tratterranno l’inchiostro e conferiranno al tratto quel suo aspetto vellutato particolarmente riconoscibile e caratteristico dell’incisione a puntasecca, un alone nerastro e soffuso che, in fase di stampa, appare accanto ai tratti incisi.
MANIERA NERA Questa tecnica, chiamata anche mezzatinta o incisione a fumo, consiste nell’annerire prima tutta la superficie, liberando poi le mezzetinte e i bianchi. Con la maniera nera si possono ottenere tonalità ricche di profonde sfumature. E’ una tecnica che si è sviluppata in un’epoca in cui era in auge l’incisione di riproduzione, in ragione delle possibilità pittoriche che il suo segno consentiva di ottenere. Per prima cosa si effettua la granitura (una fitta trama di punti distribuiti casualmente) per mezzo di un apposito strumento chiamato berceau in francese o rocker in inglese, una speciale mezzaluna d’acciaio con il taglio munito di minutissimi denti, inserita in un manico di legno a forma di pera. Movendolo e ripetendo sempre lo stesso movimento sulla lastra, si ottiene una serie di piccoli punti che devono coprire la superficie in modo talmente fitto di segni che, se venisse stampata, darebbe il nero completo. La granitura della lastra si effettua generalmente incrociando regolarmente le linee secondo assi perpendicolari e obliqui. Terminata la granitura, dopo avere, in genere, preventivamente unto d’olio la lastra si creano le mezzetinte con l’ausilio di raschiatoi e brunitoi; cioè si agisce sulla lastra così lavorata con il “brunitoio” per chiudere eventuali segni, schiacciando e rendendo liscia la lastra; ove si vuole diminuire l’inchiostrazione si raschia via la granitura talune parti del metallo per impedire che l’inchiostro vi si trattenga al momento dell’inchiostrazione. Al contrario dell’acquatinta, osservando con una lente una stampa incisa alla maniera nera, si possono vedere punti neri circondati di bianco.
IL PUNZONE E’ una punta d’acciaio conica che viene battuta sulla lastra con cui si incidono segni di diverse grandezze e profondità che, nell’insieme, in stampa, daranno varie tonalità. Anche per questa tecnica, ai fini della nitidezza, si usa asportare le “barbe”.
PROCEDIMENTO INDIRETTO
ACQUAFORTE L’acquaforte, spesso utilizzata solo per creare bozzetti di opere d’arte e raramente usata come tecnica espressiva fu privilegiata da alcuni grandi maestri quali Goya, Dürer o Rembrandt, unici nel trarre dall’acquaforte vere e proprie opere d’arte, ha preso il nome dal nome antico dell’acido nitrico. Su di una lastra generalmente di rame o di zinco viene spalmata, una vernice grassa. Una volta asciugata, si esegue il disegno con punte più o meno sottili, con le quali si intacca la vernice. A disegno ultimato, si immerge la lastra in un bagno di acido nitrico che “morde”, ossia, corrode, il metallo soltanto nelle zone in cui la vernice è stata tolta dalla punta, mentre il resto della lastra rimane intatto. Si provvede quindi a rimuovere la vernice rimasta sulla lastra e ad inchiostrare quest’ultima. Pulendo la lastra, si sarà rimosso l’inchiostro superficiale, ma non quello depositato negli incavi ottenuti dalla morsura dell’acido, che sarà trasferito sotto la pressione di un torchio sulla carta.
ACQUATINTA Verso la fine del XVIII secolo Goya ha fatto largo uso dell’acquatinta, mostrandosi superbo interprete delle potenzialità espressive di questa tecnica e originando stampe dove le superfici sono trattate esclusivamente con questa tecnica. Una lastra incisa all’acquatinta mostra sul foglio una retinatura particolare e inconfondibile, costituita da un alternarsi omogeneo, ma casuale, di punti irregolari. L’acquatinta si distingue infatti per i suoi effetti di “grana”. Per ottenere la grana, la matrice viene ricoperta con sostanze cristalline (per lo più polveri grasse e cerose come la colofonia – di origine vegetale – o il bitume di Giudea – di origine minerale -) distribuite in modo omogeneo sulla parte interessata della lastra. In seguito la matrice viene scaldata per favorirne l’adesione, la polvere infatti fonde e aderisce alla superficie proteggendola in modo puntiforme. Con un pennello e della vernice coprente si lavorano le parti che si vogliono lasciare bianche alla stampa e si immerge poi la lastra nell’acido. Questo penetrerà solo tra una particella e l’altra della copertura puntiforme provocando una la granitura, che per essere omogenea deve avere una distribuzione uniforme della polvere.
CERA MOLLE La ceramolle si è diffusa molto nel Settecento in ragione degli effetti pittorici che era in grado di dare. Si usa quando si desiderano ottenere segni particolarmente sfumati morbidi e sgranati, simili a quelli lasciati da una matita o da un carboncino su di una carta ruvida. Per ottenere questi effetti si usa coprire la lastra con un impasto speciale, (una particolare cera che viene fatta sciogliere a bagnomaria con aggiunta di sego e la polvere di bitume). Terminata l’inceratura e lasciata raffreddare la lastra si applica un foglio di carta velina, facendo in modo che la parte ruvida di questa carta sia a contatto con la cera. A questo punto, utilizzando una matita di media durezza, si disegna sulla parte lucida della carta velina., su cui l’artista lavora disegnando liberamente con una matita. Terminata l’opera, il foglio viene sollevato, con molta delicatezza e il suo distacco dalla lastra comporta l’asportazione anche del suddetto impasto in corrispondenza dei segni tracciati, dove la vernice rimane attaccata al foglio. Seguono quindi i soliti procedimenti delle altre tecniche calcografiche, con l’accortezza di usare acidi deboli nella morsura, data la delicatezza dello strato protettivo.. I tipi di segno di questa tecnica sono: uno granuloso, che imita quello ordinariamente lasciato da una matita; – uno più morbido e pastoso, che richiama lo sfumato che si può ottenere con un pastello.
La stampa di una matrice calcografica si divide in tre fasi: inchiostratura, pulitura, stampa al torchio e tutte e tre vengono ripetute ad ogni copia.
L’inchiostratura consiste nel far penetrare bene l’inchiostro nei segni incisi, a questo scopo si usa un inchiostro molto fluido distribuito abbondantemente, con una piccola spatola, su tutta la lastra, cercando di farlo penetrare in tutti i segni incisi.
La pulitura consiste nel pulire tutta la superficie della lastra, senza però togliere l’inchiostro dai segni incisi. Lo stampatore usa garze, fogli di carta velina ed anche il palmo della mano. A seconda del risultato che si vuole ottenere si possono lasciare zone leggermente velate o pulire la superficie della lastra finché non risulta lucida.
Infine la stampa viene effettuata con un apposito torchio detto appunto “calcografico”. La lastra viene collocata sul piano del torchio e le viene sovrapposto il foglio di carta umido e quindi un feltro di ammorbidimento. Il tutto viene fatto passare fra due cilindri in pressione tra loro che spingono la carta a raccogliere l’inchiostro dentro i segni incisi.
Le carte usate in calcografia, per riuscire, a raccogliere sotto pressione l’inchiostro dentro a segni (anche se sottilissimi), sono spesso ancora costituite da stracci di cotone e fatte a mano ed inumidite prima della stampa in modo da farne gonfiare le fibre che così raccoglieranno meglio l’inchiostro dall’incavo dei segni. Devono essere piuttosto spesse, contenere pochissima colla, e al tempo stesso resistenti per reggere senza strappi alla pressione del torchio.