L’immagine della Sicilia tra immobilismo e movimento
Pare che oggi si sia finalmente compreso che la Sicilia, nella rappresentazione della sua immagine, ha sofferto di un eccesso di “sicilitudine”, per usare un termine di Sciascia. È stata troppo raccontata solo in un certo modo, e questo è avvenuto perché, dai tempi del GrandTour ha cominciato ad esercitare un fascino particolare, in ragione di alcune spiccate caratteristiche.
Così le opere d’arte del tempo, grafiche e pittoriche (deputate alla diffusione dell’immagine della Sicilia in Europa) perlopiù mostravano solo certi aspetti del paesaggio. L’attenzione si concentrava verso alcuni straordinari siti archeologici e su di alcuni particolari scorci naturali (Taormina ne è l’esempio più lampante). Cominciava inoltre ad insinuarsi nell’immaginario collettivo, una certa visione terrifica del paesaggio dell’Etna.
Le vedute panoramiche della Conca d’Oro esprimevano invece un senso di eterna e mitica bellezza, (l’immagine della Sicilia all’inizio è infatti fondamentalmente legata al mito…. solo dopo si cominciarono a diffondere le vedute di ambiti meno ameni, in sintonia con la diffusione delle opere di Verga. Il paesaggio desolato del latifondo, Il senso di solitudine e la condizione dei contadini).
La fotografia successivamente semplicemente ribadì in molti casi le stesse vedute che a loro volta erano state diffuse dalle opere di alcuni noti pittori. Altri artisti da tali immagini presero poi spunto, producendo a loro volta ulteriori opere pittoriche ed attuando di fatto un fecondo rimando di immagini, che però ha nel tempo contribuito a bloccare su certi parametri l’immagine della Sicilia.
In letteratura con Verga si giunse a suggerire il tipo di paesaggio siciliano per eccellenza. Da Verga infatti si può affermare prendano spunto moltissimi autori, seppure ad ondate successive. Questo non vuol dire che ognuno abbia descritto in modo simile la Sicilia… anzi, si riscontrano a volte opinioni molto diverse e descrizioni talmente distanti tra loro da non poterne trovare un comune denominatore.
È infatti come se le descrizioni fatte del paesaggio siciliano si muovessero tutte tra due limiti estremi: quello per così dire dell’immagine di totale immobilità, di un paesaggio cristallizzato sul concetto di una immensa e totale solitudine, quella del latifondo, ampio e desolato, inesorabile distesa fatta di un susseguirsi monotono di dune assolate, e quello invece di un paesaggio estremamente dinamico, offerto da quello che nell’immaginario collettivo ha forse conferito l’immagine più forte della Sicilia, il paesaggio dell’Etna. L’Etna infatti si offre quale eterna metafora della forte contraddizione esistente tra il senso di movimento la lava che scorre e che sconvolge, e l’assoluta immobilità del paesaggio del latifondo.
Il fascino che sin da allora esercitava la Sicilia era legato anche a quell’immagine terrifica data dalla presenza dell’Etna. L’Etna, aveva già sconvolto con le sue colate intere valli e raggiunto più volte Catania ed il mare. Aveva reso sgomenti molti viaggiatori e generato in tempi ancor più lontani, l’origine del mito. L’Etna con il suo paesaggio in movimento, aveva plasmato non solo un intero territorio, quello etneo, ma l’immaginario collettivo, formando lentamente l’idea che in Sicilia tutto potesse succedere… all’improvviso.
Una terra capace quindi di stare assopita per poi esplodere violentemente con tutti i suoi rumori, colori, vapori. Una terra imprevedibile, come imprevedibili erano i fenomeni (naturali o storici) di cui, da sempre, era stata teatro.
La rappresentazione dello spettacolo della natura, si esprimeva anche con violenti terremoti. Quello del 1693, che determinò addirittura la sua immagine barocca. Oppure l’improvvisa comparsa dell’isola Ferdinandea nel mare di fronte Sciacca, e la sua altrettanto veloce scomparsa.
All’immagine di una terra capace di continua trasformazione, non solo a causa di fenomeni naturali improvvisi ma anche per la lenta e inesorabile azione del vento e del mare, capaci di ridisegnare le coste e modellare le montagne, e del lento e inesorabile movimento del terreno, in gran parte argilloso, tendente a franare, si associava già quella del continuo assecondarsi di dominazioni diverse, che hanno contribuito a formare quel crogiuolo di culture che ha formato il popolo siciliano.
A tal riguardo è opportuno sottolineare che la Sicilia ha sempre rappresentato per i suoi conquistatori una terra ambitissima, e questo non è solamente spiegabile con l’esigenza di volersi appropriare di una postazione strategica. È probabile che la Sicilia sia da sempre stata teatro di scontri sanguinosi che sono andati ben aldilà dell’esigenza di possesso di una terra utile alle strategie di commercio e di guerra.
Queste considerazioni spingono a credere che la Sicilia in realtà la si volesse ad ogni costo possedere. Era probabilmente agli occhi del conquistatore una terra sacra. La percezione di quel senso di immobilità, che è stata tradotta a volte in senso negativo dallo scrittore contemporaneo, si potrebbe tradurre quindi, nel caso degli antichi conquistatori come la percezione di un senso di eterno.
Questi dunque sono i due poli: il senso di immobilità, o dell’eternità derivata dal senso del sacro, e il senso dell’improvvisa esplosione, trasformazione radicale, insostenibile mutevolezza che spezza ogni tentativo di approfondire le proprie radici. Un senso di eterno e di provvisorio insieme. Tra questi due poli, mi si muove tutta la trattazione letteraria, poetica, pittorica, fotografica e cinematografica e in generale immaginifica della Sicilia e del suo paesaggio.
L’immagine della Sicilia è quindi nata dal coesistere di due opposti concetti: quello di immobilità e quello di movimento . da ciò deriva l’idea di una Sicilia che è centro ma è al margine, che è un sistema chiuso ma è anche aperto. Che è una terra intatta, ma è devastata, che è una regione limpida ma tormentata, fervida ma desolata e così via…. Una Sicilia che ancora in fondo ci appare come qualcosa di dolcissimo e terrifico ad un tempo. E che se anche ci appare immobile, ci sgomenta perché percepiamo inconsciamente che qualcosa cova sotto la cenere, ed è pronta ad esplodere all’improvviso. Ma è questa in fondo anche una speranza… che da un cratere spento si possano accendere nuove artistiche passioni, che risveglino da un lungo sonno le capacità sopite del popolo siciliano.
Un interessante articolo apparso negli anni ’60, invita a riflettere sul fatto che questa percezione delle immagini contrapposte sussiste anche in letteratura……. Ne riporto un breve stralcio.
RITMI DINAMICI e RITMI LENTI nella letteratura siciliana
1963 rivista Sicilia n.39 articolo di Gaspare Giudice
Gli scrittori siciliani e il paesaggio.
Non c’è un paesaggio solo in Sicilia, non solo nel senso che Punta Peloro, i papireti dell’Anapo, Monte san Giuliano e il Lago di Pergusa differiscono tra loro, ma nel senso che uno solo di questi paesaggi possiede una propria molteplice fenomenologia, una proprietà differente a seconda del diverso strumento con cui lo si rileva. Per esempio un paesaggio dell’interno della Sicilia, il liquido, lacrimale, spaurito latifondo dell’occhio fisico, è cosa qualitativamente differente dal paesaggio angolato e fisso, inquadrato, luce-ombra della macchina fotografica, come da quello cinematografico che può prolungarsi in un nastro senza fine di brullo calvario lunare o scattare traumatico e sociologico nel montaggio, da quello sempre più soggettivo e arbitrario del pittore, da quello infine dello scrittore che trova le parole per il paesaggio e cioè si impadronisce del paesaggio attraverso le parole per farne simbolo e metafora di una propria ideografia o una propria nevrosi.
Qui si vuole accennare al paesaggio degli scrittori siciliani, che tende da un lato a un’alta e trasmissibile convenzione, dall’altro a una zona di reazione personale, autonomamente reagente alla forte provocazione dell’immediata forza delle cose.
Verga, il primo e il migliore, scriveva: ” fra due casucce della piazza, in fondo a una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna”. (Libertà). I colori cioè sono sbiaditi o assenti in quanto colori: giallastri i campi, cupi i boschi. L’accostamento è chiaroscurale; fulminato e precipite il paesaggio a causa del fondale prossimo alle due casucce e dello sprofondare dell’occhio in un remoto figurativo-psicologico perfettamente rispondente all’anima siciliana dello scrittore. … Verga vede spesso il paesaggio siciliano spettralmente. … si possono trovare certamente motivi di carattere psicologico e biografico, del tutto personali del Verga, all’origine di tali epifanie del paesaggio siciliano, ma qua ci interessa rilevarle piuttosto nella loro oggettività, come l’invenzione o l’atto di nascita di un certo paesaggio carico di spettri di morte e ormai oggi acquisito nella storia letteraria siciliana. Già Pirandello, nonostante la sua consueta involontaria alienazione di fronte al mito lirico del paesaggio, appare in alcuni punti conscio di questa nozione:”la bianchezza accecante della calce faceva sembrare quasi nero l’azzurro intenso e ardente del rettangolo di cielo nel cortile”. (i due compari); e in un altro punto:”era il cobalto del cielo così intenso che quasi pareva nero attorno alla fulgida statua marmorea”.(il viaggio). Gli pare cioè che il cielo siciliano custodisca il nero i filigrana densa. Non ci sembra semplice registrazione di un fenomeno ottico, ma proiezione dell’usuale pirandelliano trauma di morte. E quasi mezzo secolo dopo Brancati: ” … nonostante la sua intensità, o forse a causa di questa, la luce del sud rivela nella memoria una profonda natura di tenebra” (Paolo il caldo). Anche Tomasi di Lampedusa dirà: ” qualcuno era morto a Donnafugata, qualche corpo affaticato che non aveva resistito al grande lutto dell’estate siciliana”.
… tornando a Pirandello le sue frasi paesaggistiche non hanno quasi mai un’aderenza lirica che possa essere prova di un rapporto mitico tra lo scrittore e la terra in cui è nato. (…) le intenzioni dello scrittore di dominare e sia pure nei limite di una convenzione letteraria il paesaggio, venivano se appena prolungate, travolte dall’emergere degli scatti incontrollati del temperamento. … “piovigginava ancora a scosse nell’alba livida tra il vento che spirava gelido a raffiche da ponente; e a ogni raffica, su quel lembo di paese emergente or ora, appena cruccioso, dalle fosche ombre umide nella notte tempestosa, pareva scorresse un brivido, dalla città alta e velata sul colle, alle vallate, ai poggi, ai piani irti ancora di stoppie annerite, fino al mare laggiù torbido e rabbuffato”. (…) cioè il paesaggio, che poi è siciliano agrigentino solo fino a un certo punto, in Pirandello, tranne in qualche raro momento di pacificazione ha un carattere di nevrotico dinamismo che, al di là delle probabili intenzioni, finisce per metterlo fuori gioco nell’edificazione di uno stile Sicilia. (…)
Tra coloro che vennero dopo, Savarese, Lanza e Vittorini, tornò ad essere maestro il Verga… si ebbe così il recupero lirico e mitico della Sicilia in un contesto caratterizzante e universale:lezione che è stata utilissima agli scrittori di questo dopoguerra.
Conversazione in Sicilia : ” non più un filo d’acqua in tutti i torrenti per cento chilometri da ogni parte e dinanzi agli occhi niente altro che stoppie da dove il sole spuntava sino a dove tramontava. Non c’erano case per venti, trenta chilometri da ogni parte eccetto lungo la linea le case cantoniere schiacciate a terra dalla solitudine; e ch’era una terribile estate significava non un’ombra per tutti quei chilometri, le cicale scoppiate al sole, le chiocciole vuotate dal sole, ogni cosa al mondo diventata sole”.
Vittorini tornava alla violenza ottenebrante, nullificante di Verga e riedificava il mito del paesaggio siciliano che più oltre rimarrà coerente con una verità siciliana di aspra, astratta emblematicità e fortissimo potenziale. Diciotto anni dopo Sciascia all’apertura di u paesaggio sarà ancora scrittore verghiano: “poi apparve Castro, bianca da sembrare incandescente nel fuoco del sole, un paese mai visto mi pareva” (il quarantotto).
La solarità della Sicilia, nei suoi scrittori, ha toccato i limiti di una metafora di cenere: verrebbe da attendersi un’esplosione fluida, una liquefazione sotto la cenere di quella spettrale volumetria; ma sarebbe un’attesa sbagliata: si tratta in fondo di altro. Le furie radicate e sepolte di questo paesaggio aspirano ad un ordine e ad una legalità. La rarefazione della violenza, l’ordine di uno stile trattiene implicita la vocazione all’autodominio. Se questi segni letterari hanno un significato di storia, indicano l’alta tensione e la paziente attesa delle soluzioni razionali.