Man Ray
Emmanuel Radnitsky, in arte Man Ray, “uomo raggio” sosteneva che la realtà non può più essere il soggetto dell’arte, mentre lo è sempre e comunque soggetto della fotografia. “Io fotografo ciò che non voglio dipingere e dipingo ciò che non posso fotografare” diceva…
Dell’artista Man Ray si osserverà qui, più specificatamente l’ambito della fotografia, piuttosto che in quello dell’avanguardia dada. Fra il 1910 ed il 1915, una serie di frequentazioni presso il circolo artistico anarchico Francisco Ferrer, le conversazioni con Alfred Stieglitz alla Galleria 291, dove il giovane si recava ad ammirare i collage di Picasso o gli acquerelli di Cézanne, l’incontro col Dada di Picabia e Duchamp, lo porteranno a una nuova identità anagrafica ed artistica. Faranno sì che la sua ricerca dapprima influenzata dal Cubismo si orienti sugli effetti della luce, elemento primario della sua ricerca fotografica. Man Ray insoddisfatto delle riproduzioni che i fotografi professionisti fanno dei suoi lavori inizia a fotografare, intorno al 1915. Le prime immagini denotano subito l’interesse per la luce e per il mutare delle ombre in rapporto ai cambiamenti d’illuminazione e riproduce spesso d’oggetti d’uso comune, accompagnati dalle loro ombre. Si trasferisce a Parigi nel 1921, dove ha modo di frequentare artisti e letterati dadaisti.
Fra i dadaisti si coltivava una comune rinuncia alle tecniche specificamente artistiche legate al passato, di cui si voleva fare tabula rasa a favore di quelle moderne della produzione industriale, utilizzate in maniera non convenzionale e creativa. A quel periodo risalgono, infatti, le cosiddette Rayografie – fotogrammi- immagini nate in camera oscura senza una macchina fotografica, ma semplicemente grazie al processo chimico che la luce innesca sui materiali fotosensibili: il risultato è quello di un negativo degli oggetti opachi o traslucidi che sono stati appoggiati sulla carta. Le Rayografie, in quel determinato periodo storico assumono un valore destabilizzante per le attese mimetiche ed iconiche, rispetto ad una tecnica ritenuta garanzia massima di realismo, e pongono le premesse ad un discorso critico sul linguaggio fotografico.